Se la giustizia non è più un potere, ma è al servizio del potere. Questa è la riforma Nordio

Pubblicato su www.strisciarossa.it del 29 Luglio 2024

Il 13 luglio scorso il Governo Meloni ha presentato alla Camera dei deputati il disegno di legge costituzionale “norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” (A.C. 1917). È stato assegnato alla prima Commissione Affari Costituzionali in sede Referente il 19 giugno 2024, dove ora è in discussione.
La proposta modifica i principali articoli della Costituzione relativi al sistema giudiziale, in particolare, gli artt. 87, 102, 104, 105, 106, 107 e 110. L’iter di revisione costituzionale è solo agli inizi e avrò modo di tornarci anche in secondo tempo, ma qualche importante riflessione mi sembra opportuno farla subito.

Da dove viene il modello “di rottura”

Foto di Laurent Verdier da Pixabay

Non tutti sanno (credo lo sappiano solo gli addetti ai lavori e pochi giornalisti attenti) da dove viene questo disegno giustamente definito di «rottura del modello costituzionale dell’unicità della magistratura» (così Domenico Gallo, Tanto tuonò che piovve! in Riv. Trim. Alternative per il Socialismo, Castelvecchi n.73.).

Esso faceva i primi passi nel 2011 con la c.d. “riforma epocale” di Alfano che nasceva a tutela degli interessi personali del suo capo Berlusconi, travolto da una valanga di inchieste giudiziarie. Il capo aveva mobilitato tutti i suoi esperti fra avvocati, professori e qualche magistrato per dare l’assalto al potere giudiziario che lo perseguitava. Non era concepibile che chi governa sia sottoposto a procedimenti giudiziari come un “normale cittadino”.

Questa “strana parità” è una conquista storica di eguaglianza che già Arnold il mugnaio di Potsdam era convinto fosse stata realizzata nel ‘700. Contro il barone avido proprietario che voleva abbattere il mulino, si racconta, privando così Arnold e la sua famiglia dell’unica risorsa di vita, “ci sarà certo un giudice a Berlino”, dichiarava fiducioso. Si dice che Arnold poi avesse vinto la causa, ma solo grazie a Federico il grande che lo aveva preso in simpatia, perché il giudice a Berlino, che lui immaginava giusto, libero e imparziale fra i potenti e gli ultimi come lui, in realtà in occidente non c’era ancora da nessuna parte perché dovevano passare almeno tre secoli. In Italia quel giudice, ad esempio, arrivò solo con la Costituzione del 1948.

Primo, isolare il Pubblico ministero

Tutti uguali davanti alla legge, per Berlusconi e i suoi “esperti”, non poteva funzionare. Il Pubblico ministero non può decidere se e quando aprire l’azione penale, tanto meno nei confronti di chi farlo. È troppo libero, troppo autonomo e gli fu suggerito che la soluzione potesse essere quella di staccarlo dall’Ordine giudiziario, isolarlo e, possibilmente, metterlo un po’ alle dipendenze del potere esecutivo come d’altronde era stato fino a meno di un secolo prima.
La riforma Nordio ricalca quasi per intero quella “epocale” di Alfano, solo che oggi c’è una ragione in più ed è di carattere più marcatamente politica: il ritorno indietro verso l’idea della giustizia nelle mani dell’esecutivo o, meglio, del Capo, è una scelta consapevole di un Governo che tende a tingere di nero il sistema giudiziario perché così com’è, risulta fastidioso, troppo libero e indipendente.

La riscrittura dell’art. 104 della Costituzione (art. 3 d.d.l. 1917) prevede due carriere nello stesso Ordine determinando la rottura dell’ordine unico pur espressamente richiamato. Si fa confusione fra carriera a funzioni, ma nel rapporto d’impiego la carriera contiene le funzioni: “si distinguono una c. direttiva, una c. di concetto, una c. esecutiva, e una c. del personale ausiliario” (Diz. Treccani) nell’ambito dello stesso ordinamento.

Divide et impera

Foto di Franz Dürschmied da Pixabay

L’Ordine contiene le carriere, ma dividendo queste si divide l’Ordine. Specie se le carriere faranno capo a due diversi organismi di autogoverno. Da un lato, si continua a dichiarare il principio di unitarietà (art. 111,1 Cost.), dall’altro, l’Ordine si divide. Una furbata come tante, non dovremmo abituarci.
Secondo una certa vulgata il Giudice di un processo penale troverebbe limitazioni della sua libertà e indipendenza nel giudizio perché il P.m. appartiene al suo stesso Ordine. Questo motiverebbe la necessità della separazione delle carriere.

Ma cerchiamo di capire meglio. In realtà, fra il Giudice e il P.m. potrebbe esserci forse un rapporto di amicizia (e ci mancherebbe…), ma nell’ordinamento vigente mai questo rapporto potrebbe essere di reciproca influenzabilità professionale, né da un punto di vista della terzietà (che attiene ai ruoli), né da un punto di vista dell’imparzialità che consiste di libertà di giudizio e di coscienza. Queste ultime sono improntate al principio in base al quale Il giudizio non deve essere condizionato da nulla e nessuno (nessuna speranza e nessun timore), non si vede, pertanto, come il P.m. potrebbe agire sul Giudice per condizionarne libertà e coscienza.

Una magistratura che non è più potere, ma al servizio del potere

Come è stato autorevolmente evidenziato, «In base all’ordinamento il Pubblico ministero non può effettuare alcun controllo sul Giudice, non può determinare né avanzamenti, né ritardi della sua carriera, né prospettargli vantaggi o svantaggi di qualunque tipo» (D. Gallo, cit.).
Non solo, ma un Giudice di primo grado che vede riformarsi una sentenza in secondo grado, forse avrebbe molto da eccepire sulla seconda sentenza; un Giudice d’appello idem su quello di legittimità, ebbene, pur appartenendo allo stesso Ordine, questi giudici sono terzi e indipendenti, nonché autonomi e liberi dai precedenti, non potendo in alcun modo influenzarsi reciprocamente, dunque, è un po’ strano che l’esigenza della separazione delle carriere valga solo per il rapporto fra Giudice e P.m. Si tratta, con tutta evidenza, di un’argomentazione decisamente non convincente.
In realtà, l’orientamento alla separazione delle carriere e alla rottura dell’unicità della magistratura è di carattere politico e risponde alla logica del ritorno allo Stato liberale (si usi bene questa espressione, non come la usava Berlusconi e la usano i suoi accoliti e gli alleati degli accoliti) quando, dalle monarchie costituzionali allo Stato fascista, la magistratura era al servizio dei re e dei capi autoritari.

Due consigli superiori

giustizia
Foto di Edward Lich da Pixabay

Secondo il dettato costituzionale, i componendi del Csm (oltre quelli di diritto) sono scelti in modo da garantire la preminenza degli appartenenti all’Ordine della Magistratura (componente togata) sugli eletti dalla Seduta comune del Parlamento (componente laica). Questo garantisce l’autonomia dell’Organo di autogoverno da ogni influenza della maggioranza politica, ma con essa c’è un legame: il rapporto con l’emisfero della volontà politica rappresentativa (la Seduta comune) è necessario perché gli Organi della Repubblica sono separati e bilanciati fra loro, non sono divisi come compartimenti stagni.

In breve: da una parte, la Seduta comune, come organo politico in cui prevale una maggioranza non è un corpo separato dal Csm, dall’altra, quest’ultimo non deve subire l’influenza di questa maggioranza politica di turno con cui è collegato. Questo è il disegno costituzionale.

Orbene, Il d.d.l. 1917 prevede due Csm, uno per la carriera dei giudici, l’altro per quella del Pubblico ministro. Da un punto di vista della composizione, dalla revisione proposta, sarebbero organi simili: in entrambi resterebbe la prevalenza della componente togata su quella laica in ragione di 2/3 e 1/3 come ora, ma la loro elezione si complicherebbe non poco.

Una complicazione poco convincente

Tutti sarebbero estratti a sorte: per la componente laica, oltre i membri di diritto, gli altri sarebbero estratti a sorte fra avvocati “senior” da un elenco compilato dal Parlamento appena eletto (entro sei mesi) mediante elezione. Oggi, anche in base alla legge 71/2022, vengono eletti dal Parlamento in seduta comune tra docenti universitari e avvocati con almeno 15 anni di esercizio; secondo il d.d.l. in esame, invece, bisognerà che il Parlamento in seduta comune faccia un elenco da cui estrarre a sorte i 10 membri laici per ciascun Csm (che dunque passerebbero a 20 con aggravio di costi e procedure). Una complicazione poco convincente.
Quanto alla componente togata, ora è eletta dai magistrati su presentazione di candidature. Il sistema è stato modificato recentemente dalla legge Cartabia nel 2022, che introduce un maggioritario binomiale e un correttivo proporzionale. Introduce anche il sorteggio per determinate candidature.

Ciò che rileva tuttavia (semmai sulla Cartabia potremmo tornarci), è che questa riforma arrivava, fra altri, con l’obiettivo di arginare il presunto strapotere delle correnti interne alla magistratura che, soprattutto dopo lo scandalo Palamara era diventato obiettivo fondamentale. Ma le cose sono andate male rispetto alle aspettative perché con l’applicazione del nuovo sistema elettorale nella elezione della componente togata del settembre 2022 le correnti hanno avuto ancora un ruolo decisamente protagonista. La cosa non è piaciuta alla destra forse perché a vincere sono state le correnti di sinistra.

Come impedire la vittoria delle correnti di sinistra?

Chi sa se i giornali che all’epoca si risentirono moltissimo avessero frignato allo stesso modo se le correnti vincitrici fossero state quelle di destra. Emblematici alcuni titoli dell’epoca: “Scelti i 20 componenti togati del nuovo Consiglio superiore della magistratura. La riforma Cartabia fa flop: eletto soltanto un candidato indipendente. Si impongono le correnti di sinistra Area e Md”; “La magistrata sorteggiata come candidata al Csm: Le correnti dominano ancora” e potremmo andare avanti. In realtà, nel caso si modificasse la Costituzione come nel d.d.l. 1917, e alle prossime elezioni la destra riavesse il 58% della seduta comune come oggi, l’estrazione avverrebbe tranquillamente da un elenco di persone di fiducia della destra al potere senza correre il rischio che si ripeta la vittoria delle correnti della sinistra alle ultime elezioni del Csm.

Vero che alle prossime elezioni potrebbe vincere anche la sinistra (in realtà la destra di Meloni è molto ottimista), ma questo non rileva. La composizione dei due Csm, così come concepita, sarà governata dalla maggioranza politica del momento.

Lo stralcio della funzione disciplinare

Nel d.d.l. 1917, la funzione disciplinare è tolta da quelle tipiche del Csm e si trasferisce a un nuovo organo denominato Alta Corte disciplinare che dura in carica quattro anni. La composizione dell’Alta Corte è simile ma non uguale a quella dei due Csm: tre giudici di nomina presidenziale fra professori e avvocati; tre estratti a sorte dal solito elenco della seduta comune; sei componenti della magistratura giudicante e tre di quella requisente estratti a sorte tra magistrati giudicanti e requirenti con almeno vent’anni di esperienza.

Anche qui, come detto, se la revisione Nordio passasse e se numeri e percentuali sulla composizione del Parlamento e della Seduta comune restassero quelli che sono ad elezioni avvenute, la destra avrà spianato la strada a un sistema giudiziario al servizio della sua maggioranza di Governo. Se numeri e percentuali premiassero la sinistra, invece, ci sarebbe solo da augurarsi (non c’è niente di scontato) che questa promuova, giunta al potere, una riforma della riforma costituzionale per abbattere questo perverso bagaglio per tornare ai principi costituzionali sulla giustizia per fortuna, ad oggi, ancora in vigore.