Il premierato tra bugie e ipocrisie. Una grande mobilitazione per fermare il “regime del capo”

16 LUGLIO 2024

già pubblicato in www.strisciarossa.it

|DI CARLO DI MARCO

Mai più di oggi c’è stato motivo di preoccupazione in tutte le persone che amano la democrazia costituzionale, ne conoscono la provenienza e la natura, perché mai più di oggi essa è stata in pericolo: mai avevamo avuto un Governo così marcatamente filofascista. E mai più di oggi l’indifferenza potrebbe essere la causa di un disastro già da troppo tempo annunciato. il 18 giugno 2024, il Senato ha approvato, in prima deliberazione, il disegno di legge costituzionale, d’iniziativa del Governo: “Modifiche alla parte seconda della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica”. Comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, ha iniziato il suo iter super accelerato per via della fretta del Governo di stravolgere le regole del gioco democratico parlamentare. È la merce di scambio fra componenti del Governo ed è il sogno “melonista” che si intreccia con quello leghista di Miglio, anch’esso alla prima tappa della corsa superveloce della secessione dei ricchi.

Falsità e ipocrisie

Il disegno di legge di revisione costituzionale del Governo, punta alla trasformazione della forma di governo parlamentare in maniera piuttosto rozza e ipocrita (come d’altronde anche la legge Calderoli sulla cosiddetta autonomia differenziata) facendo leva su finalità apparentemente lecite, per quanto discutibili, come la cosiddetta governabilità, la stabilità, la rappresentanza, il ruolo di prestigio del Presidente della Repubblica ecc.

La governabilità, ad esempio, è assillo di tutti i governanti degli ultimi trent’anni, come fosse la vera malattia della nostra democrazia costituzionale. Essa, come strumento per la decisione rapida, veloce, ad ogni costo, stabile, senza troppi intralci, non è uno dei principi della democrazia costituzionale. Questa, infatti, è basata sul pluralismo, la rappresentanza il confronto, la partecipazione effettiva dei più all’ “organizzazione economica politica e sociale del Paese” (art. 3.2 Cost), la competenza e il prestigio dei rappresentanti del popolo. Dunque, essa è dialettica, riflettuta, confrontata. Altro che rapida e veloce.

In più parti del disegno governativo, inoltre, si osservano evidenti ipocrisie e falsità ideologiche ascrivibili a volte all’ignoranza dei proponenti, ma anche alla loro furbizia, potendo essi contare su una situazione di crescente disinformazione dei cittadini. Non si può che definire ideologicamente falso il paradigma che ritiene l’assegnazione di un premio di maggioranza enorme (55% rimandata alla legge ordinaria) essere un “premio” alla rappresentanza (AS 935, relazione). Non è evidente la falsità di questo ragionamento? Il premio di maggioranza in sé è un inno alla governabilità e una mortificazione della rappresentanza (nell’art. 5.2 del disegno governativo, viene addirittura costituzionalizzato come principio). Inoltre, anziché porsi il problema del crescente dilagare del non voto, con il premio di maggioranza altissimo, se ne prende atto e lo si accetta, anzi, lo si incoraggia poiché con il crescere del non voto un’esigua minoranza dell’elettorato (lo vedremo meglio più avanti) potrà facilmente istituire un sistema “capo-cratico” autoritario.

Con singolare ipocrisia, nella relazione si afferma che il Presidente della Repubblica resterebbe “figura chiave” (AS 935, relazione), quando invece essa viene marginalizzata. Il Presidente della Repubblica, infatti, nomina il Presidente del Consiglio dei ministri, ma non più con un atto presidenziale sostanzialmente complesso come nell’attuale forma di governo. Assunto che il capo del Governo sarà eletto a suffragio universale, infatti, come potrebbe il Presidente della Repubblica non nominarlo dopo la sua elezione? Nell’ipotesi che il Governo appena nominato non ottenesse la fiducia del Parlamento, inoltre, – cosa fortemente improbabile, ma le precauzioni non sono mai troppe quando si costruiscono trappole e trabocchetti – il Presidente della Repubblica dovrà dare nuovamente incarico allo stesso Presidente sfiduciato che si ripresenterà in Parlamento con una nuova compagine governativa. Nel caso fosse rifiutata la fiducia alche a quest’ultima, il Capo dello Stato dovrà sciogliere il Parlamento. Gli atti presidenziali che fino ad ora rientrano ancora nella categoria di quelli “sostanzialmente complessi” (perché sono assunti dopo consultazioni e confronti con vari soggetti istituzionali) diventano, con questo disegno governativo, atti dovuti, privi di qualsiasi valutazione discrezionale del Presidente della Repubblica che così si trasformerà in un mero esecutore. Altro che “figura chiave”.

Si afferma che “permane la centralità del rapporto di fiducia”, ma in realtà questa fiducia sembra obbligata pena lo scioglimento delle Camere. In altri termini, il Presidente del Consiglio dei ministri che con la sua compagine governativa non ha ottenuto la fiducia del Parlamento, è di nuovo nominato dal Presidente della Repubblica (che non ha scelte, deve solo eseguire). Ebbene, nel caso il Parlamento insista nel negare la fiducia, il Capo dello Stato (anche qui) deve sciogliere le Camere. Insomma, in mancanza della Fiducia, non è il Governo a doversene andare, bensì il Parlamento, senza nessuna valutazione complessa e ben riflettuta da parte di un organo di garanzia.

Restando sull’ipocrisia della “figura chiave”, il Presidente della Repubblica, è invece privato anche di un’altra importante prerogativa, per evitare “fastidi”. L’art. 1 del disegno di revisione, infatti, abroga l’articolo 59.2 della Costituzione privando il Capo dello Stato del potere di nomina di cinque senatori a vita “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. È bene ricordare che l’istituzione dei senatori a vita fu una scelta molto riflettuta alla Costituente. Si puntava, da un lato, a garantire la presenza nella Camera “alta” di persone di grande competenza e qualificazione, dall’altro, ad avere personaggi (oltre che competenti e qualificati) indipendenti e lontani dalle realtà partitiche, affinché si rappresentasse anche qualcosa di “apartitico”. Per questa via la rappresentanza (che viene dal voto) sarebbe stata positivamente integrata e influenzata, quindi, arricchita. Con questa scelta, la revisione in itinere vorrebbe negare questa voluntas forse perché fra i senatori a vita troppo spesso si verificano “fughe” dal servilismo. In altre parole, da ultimo, se non ci fosse la Senatrice Liliana Segre non si sarebbe scatenata la colta preoccupazione di 180 costituzionalisti sulle scelte del Governo (urly.it/3100qv), come invece per fortuna è avvenuto.

La vera posta in gioco

Sopra si accennava all’improbabilità che il Presidente del Consiglio possa non avere la fiducia del Parlamento. Esaminiamo qualche implicazione: secondo questo disegno governativo, la coalizione che vincerà le elezioni avrà come capo il Presidente del Consiglio, questo, candidato in una delle due Camere, è un parlamentare; in base al premio di maggioranza (che per legge sarà del 55%) questa coalizione otterrà la schiacciante maggioranza dei seggi. Ora mi chiedo: il Presidente eletto potrebbe mai essere in una posizione “subalterna” nella sua coalizione? Teoricamente si: potrebbe non ottenere la fiducia, potrebbe vedersela revocare [art. 7,1 lett. b)]. In realtà, questi sono rischi che corrono i governi quando il Parlamento è rappresentativo di tutto il popolo e svolge regolarmente il suo ruolo incisivo di controllo. Qui invece, per dirla con Villone, siamo davanti al peggior Parlamento della storia della Repubblica e come potrebbe accadere che, essendo formato principalmente da nominati, da un numero ridottissimo di componenti perché quasi dimezzato e da un numero “bulgaro” di seggi a favore della maggioranza, non dia la fiducia al capo del Governo eletto dal “popolo”?

Da altro punto di vista e per maggiore chiarezza, come e quanto incide il fenomeno del “non voto” su tutta questa furbesca costruzione? Alle politiche del settembre 2022, l’affluenza alle urne è stata del 63, 91%, in calo del 9%. A quel 63,91 bisogna decurtare una percentuale formata dalle schede nulle e da quelle bianche, e possiamo dire con ragionevole approssimazione che la percentuale del non voto si aggiri sul 40%. Ne discende che la maggioranza di Governo in questo Paese sia espressione del 43,79 di quel 60% composto dai voti validi scrutinati. Non mi dilungo, ma mi pare che questa maggioranza (58% della Seduta comune) sia espressione di una netta minoranza dell’elettorato attivo e di un’esigua minoranza del popolo. Ebbene, tutta la costruzione contenuta nel disegno di revisione costituzionale in itinere, si basa sulla convinzione che la percentuale del non voto salga ancora inesorabilmente. Per questa destra neofascista alleata della lega secessionista e del partito di Berlusconi meno elettori votano meglio è.

Siamo al cospetto, in definitiva, di una “vincente” comunanza di vedute e di interessi nazionali e trans-nazionali con qualche alleanza trasversale (purtroppo ci sono anche queste). Come si può pensare che questa combriccola di affaristi non voti la fiducia al loro capo eletto dal “popolo”? Il ricatto di scioglimento del Parlamento serve a suggellare un’alleanza perversa volta allo smantellamento della democrazia costituzionale nata dalla Resistenza. Con questo disegno governativo si formalizzerebbe un sistema del capo autoritario, in cui non esiste il minimo contrappeso da parte del Parlamento che, invece, risulterebbe subordinato alla figura del Presidente del Consiglio dei ministri, apparentemente eletto dal “popolo”. La posta in gioco è alta.

Cosa si può fare

Se questa levata di scudi da parte di tutte le opposizioni parlamentari e del grande movimento della “Via Maestra” (promosso dalla CGIL, dal Coordinamento di Democrazia Costituzionale, dall’ANPI ed altre); che ha coinvolto centinaia di libere forme associative antifasciste e vari partiti politici, e che sta dando prova di forte unità e determinazione procedesse unita e compatta, ci sarebbero buone speranze. Con un grande movimento popolare, infatti (è l’unica strada, non ce ne sono altre), più agevole sarebbe, da un lato, raggiungere l’obiettivo che questa revisione costituzionale non sia approvata in seconda lettura con la maggioranza dei 2/3, sicché sarebbe possibile l’apertura della fase referendaria “confermativa”. Il rischio dell’approvazione con i 2/3, purtroppo è reale: sempre attivo è il lavorio “sotto banco” nelle aule parlamentari e spesso accade che ciò che si dà per scontato, poi non lo è affatto; dall’altro, che il grado di consapevolezza porti a una netta sconfitta di questo ennesimo attacco alla Costituzione. Questo, in gran parte dipende da noi: dalla capacità che abbiamo di parlare con le persone, spiegare, mobilitare, informare, promuovere quella partecipazione popolare che la nostra Costituzione privilegia come forma effettiva di democrazia.

Carlo Di Marco, professore di diritto Pubblico (f.r.) Università degli Studi di Teramo